Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia del Monte Vesuvio

340 a.C.

I consoli

Publio Decio Mure (latino: Publius Decius Mus; ... - 340 a.C.)

Fu uomo politico e condottiero romano (IV secolo a.C.). Tribuno militare nel 343 a.C., grazie ad un audace stratagemma, salvò dai Sanniti l'esercito di Aulo Cornelio Cosso Arvina. Per questo suo atto di eroismo, gli fu permesso di partecipare al trionfo dei consoli. Salì alla carica consolare nel 340 a.C., insieme al collega Tito Manlio Imperioso Torquato, anno in cui ebbe inizio la guerra latina. Con l'altro console, arruolati gli eserciti, attraversando i territori dei Marsi e dei Peligni, per evitare quelli controllati dai Latini, arrivò nei pressi di Capua, dove i romani fecero base per le successive operazioni di guerra. Tito Manlio, insieme al collega Decio Mure, condusse i romani alla vittoria nella sanguinosa Battaglia del Vesuvio, dove l'altro console trovò la morte.

Decio morì durante la battaglia del Vesuvio, facendo un atto di devotio, ovvero si immolò agli dèi Mani in cambio della vittoria, promessa dagli aruspici a condizione che uno dei due consoli si immolasse. Era questo l'atto della devotio, una forma speciale di voto agli dei. « In questo momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: «Abbiamo bisogno dell'aiuto degli dèi, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni» » (Tito Livio, Ab Urbe condita, VIII, 9). Publio Decio Mure vestita la toga pretesta, montò a cavallo tutto bardato per la battaglia e si lanciò furioso tra i nemici, bene in vista di fronte ad entrambi gli schieramenti combattenti. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde a terra, abbattuto dai dardi e dalle schiere latine. Ma questo gesto, che i Romani consideravano rituale, diede ai suoi una tale fiducia ed un tale vigore che essi si gettarono tutti assieme nella battaglia ottenendo la vittoria.


Tito Manlio Imperioso Torquato, Politico romano (V secolo a.C.)

Figlio di Lucio Manlio Capitolino, avrebbe assunto il cognome di Torquato per aver spogliato della collana (torque) un gallo da lui vinto in singolar tenzone. Dittatore (353 e 349), console nel 347, 344 e 340, quando ebbe un ruolo importante nella guerra latina: vinse, forse presso il Monte Vescino, quella grande battaglia che la tradizione localizza alla falde del Vesuvio e abbellisce con il racconto del sacrificio di Publio Decio Mure e con quello della condanna a morte inflitta da Manlio al figlio, reo di essere uscito, contro gli ordini, dalle file per combattere in duello il tuscolano Gemino Mecio.

La genesi

Erano già consoli Gaio Plauzio (per la seconda volta) e Lucio Emilio Mamerco, quando gli abitanti di Sezia e di Norba vennero a Roma per riferire che i Privernati si erano ribellati, e per lamentarsi delle devastazioni subite. Si apprese anche che un esercito di Volsci, alla cui testa erano gli Anziati, si era accampato nei pressi di Satrico. Entrambe le guerre toccarono in sorte a Plauzio. Come prima cosa marciò contro Priverno, venendo immediatamente allo scontro armato. Sconfitti i nemici senza eccessivi sforzi, catturò la città, cui impose una massiccia guarnigione, e la restituì agli abitanti, privandola però di due terzi della terra. Di lì l'esercito vincitore venne condotto a Satrico per affrontare gli Anziati. La battaglia combattuta nei pressi di quella città fu tremenda e costò a entrambe le parti ingenti perdite; un temporale la interruppe quando non era ancora chiaro a quale dei due schieramenti sarebbe andata la vittoria, e i Romani, per nulla scoraggiati da uno scontro così incerto, si prepararono a gettarsi di nuovo nella mischia il giorno successivo. Ma i Volsci, una volta passati in rassegna gli uomini per calcolare il numero dei caduti, non avevano più alcuna intenzione di esporsi una seconda volta allo stesso pericolo. La notte, come fossero stati sconfitti, abbandonarono sul posto i feriti e parte dei bagagli, e marciarono impauriti alla volta di Anzio. Una grande quantità di armi venne allora rinvenuta, non soltanto in mezzo ai corpi dei caduti, ma anche nell'accampamento nemico. Dopo aver dichiarato che avrebbe consegnato quelle spoglie alla Madre Lua, il console devastò il territorio nemico fino alla costa. L'altro console, Emilio, entrò nel territorio sabellico, ma non trovo né l'accampamento dei Sanniti né tracce del nemico. Mentre era impegnato a devastare le campagne, fu raggiunto da inviati dei Sanniti che recavano richieste di pace. Inviati dal console al senato, essi ottennero la possibilità di parlare: abbandonata l'arroganza di sempre, pregarono i Romani di concedere loro la pace e il diritto di portare guerra ai Sidicini; queste richieste parevano loro più che giustificate, in quanto erano diventati amici dei Romani in un periodo più favorevole (e non, come i Campani, nel pieno dei rovesci), e inoltre avevano preso le armi contro i Sidicini, loro nemici di sempre, e mai amici dei Romani; infatti i Sidicini non avevano mai, come i Sanniti, richiesto l'amicizia in tempo di pace, né, come i Campani, assistenza in tempo di guerra, e tantomeno si trovavano sotto la protezione del popolo romano cui non erano sottomessi.

Il pretore Tito Emilio consultò il senato riguardo le richieste dei Sanniti, e avendo i senatori deciso di rinnovare il trattato di alleanza con loro, il pretore rispose agli inviati che non era colpa del popolo romano se i rapporti di amicizia si erano interrotti, e che siccome erano stati i Sanniti stessi a pentirsi di una guerra iniziata per colpa loro, non c'erano ostacoli a una ripresa delle relazioni amichevoli. Quanto ai Sidicini, i Romani non intendevano interferire nell'autonomia che il popolo sannita aveva in fatto di pace e di guerra. Quando gli inviati sanniti rientrarono in patria a seguito della ratifica del trattato, l'esercito romano venne immediatamente richiamato da quella zona, dopo aver ricevuto lo stipendio di un anno e razioni di viveri per tre mesi (il console aveva stabilito che questo fosse il prezzo giusto di una tregua, almeno fino al rientro degli ambasciatori). I Sanniti marciarono contro i Sidicini con le stesse truppe che avevano utilizzato nella guerra con Roma, ed erano convinti di impossessarsi della città nemica in breve tempo: ma i Sidicini tentarono di anticiparli arrendendosi ai Romani. Quando però i senatori ebbero rifiutato la loro resa giudicandola troppo tardiva e frutto solo della più disperata necessità, si rivolsero ai Latini che si erano già preparati a muovere guerra di loro spontanea volontà. Ma neppure i Campani - tanto più vivo era in loro il ricordo dell'affronto subito dai Sanniti che del beneficio ricevuto dai Romani - si astennero dall'unirsi alla spedizione. Un grande esercito formato da quei popoli e agli ordini di un comandante latino invase il territorio dei Sanniti, causando più danni con le sue razzie che in campo di battaglia. E sebbene i Latini avessero la meglio in ogni scontro, non furono affatto contrari all'idea di abbandonare il territorio nemico, per evitare di dover combattere così spesso. I Sanniti ebbero perciò tempo di inviare degli ambasciatori a Roma. Una volta ammessi al cospetto del senato, essi si lamentarono di ricevere, in qualità di alleati, lo stesso trattamento che era stato loro riservato quando erano nemici, e implorarono umilmente i Romani di accontentarsi di strappare ai Sanniti la vittoria conquistata su Campani e Sidicini, non permettendo però che essi fossero vinti dai più codardi dei popoli. Se Latini e Campani erano sottomessi ai Romani, che allora i Romani li costringessero con l'autorità ad astenersi dall'invadere il territorio sannita; se invece rifiutavano tale autorità, li convincessero allora con la forza. A queste parole i Romani replicarono in termini ambigui: erano imbarazzati a dover ammettere che ormai i Latini non erano più sotto il loro controllo, e temevano, accusandoli, di provocarne il definitivo distacco. I Campani si trovavano invece in condizione diversa, essendo entrati nella loro sfera di influenza non con un trattato, ma a seguito di una resa. Pertanto i Campani avrebbero dovuto, volenti o nolenti, rimanere tranquilli. Nel trattato stretto con i Latini non c'era invece clausola che impedisse a quel popolo di combattere contro chi avesse voluto.

La risposta, se da una parte lasciò i Sanniti nel dubbio circa le intenzioni dei Romani, dall'altra allontanò da Roma i Campani, ora in preda alla paura, mentre rese ancora più baldanzosi i Latini, persuasi che i Romani fossero ormai pronti a qualsiasi concessione. E perciò i loro capi, col pretesto di preparare la guerra contro i Sanniti, convocavano continue riunioni, e in ognuna tramavano in segreto la guerra contro Roma. Anche i Campani prendevano parte a questa guerra contro i loro salvatori. Ma non ostante cercassero di tenere nascoste tutte le loro iniziative - volevano infatti scrollarsi di dosso i Sanniti prima che i Romani passassero all'azione -, tuttavia, tramite alcune persone legate da vincoli di parentela e di ospitalità privata, a Roma trapelarono indiscrezioni sulla congiura. Ed essendo stato ordinato ai consoli di dimettersi prima del termine, per far sé che al più presto venissero nominati nuovi consoli destinati a fronteggiare quel minaccioso conflitto, subentrò lo scrupolo di permettere che presiedessero le elezioni magistrati il cui potere aveva subito una riduzione. Fu così che si venne a un interregno. Gli interré furono due: Marco Valerio e Marco Fabio, il primo dei quali nominò consoli Tito Manlio Torquato (al terzo mandato) e Publio Decio Mure. Sappiamo che nel corso di quell'anno approdò in Italia una flotta di Alessandro, re dell'Epiro. Se questa guerra avesse fatto subito registrare dei successi, non c'è dubbio che si sarebbe estesa ai Romani. A quel periodo risalgono anche le gesta di Alessandro Magno il quale, nato dalla sorella del re dell'Epiro, venne stroncato in tutt'altra parte del mondo da una malattia fatale, quando era ancora nel fiore della giovinezza e senza aver subito sconfitte in guerra. Ma i Romani, nonostante la defezione degli alleati e di tutti i Latini fosse ormai quasi certa, quasi si preoccupassero per i Sanniti e non per se stessi, convocarono a Roma dieci comandanti latini, cui impartire disposizioni. Il Lazio aveva in quel tempo due pretori, Lucio Annio di Sezia e Lucio Numisio di Circei, entrambi provenienti da colonie romane: con la loro istigazione avevano spinto a prendere le armi, oltre a Signia e a Velitra (anch'esse colonie romane), anche i Volsci. Si decise di convocarli di persona. A nessuno sfuggivano i motivi della loro chiamata. Così, prima di partire per Roma, i pretori convocarono un'assemblea e dopo aver annunciato di essere stati chiamati dal senato, chiesero istruzioni sulla risposta da dare alle domande che supponevano sarebbero state loro rivolte.

Le proposte furano quanto mai varie, e al termine Annio disse: "Anche se sono stato proprio io a richiedere il vostro parere sulle nostre risposte al senato romano, ciò nonostante ritengo più importante per la nostra causa decidere che cosa dobbiamo fare piuttosto che dire. Quando vi avremo esposto i nostri piani, non sarà difficile trovare parole adatte ai fatti. Infatti se anche adesso riusciamo a sopportare la schiavitù che ci lega sotto la parvenza di pari condizioni, cos'altro ci resta, una volta abbandonati i Sidicini al loro destino, se non obbedire non solo agli ordini dei Romani, ma anche a quelli dei Sanniti, dichiararci pronti a deporre le armi a un cenno dei Romani? Se invece un minimo desiderio di libertà sfiora i vostri animi, se le parole 'trattato' e 'alleanza' significano parità di diritti, se i Romani sono davvero nostri consanguinei (di questo in passato ci si vergognava, mentre adesso è motivo di vanto), se con 'esercito alleato' essi davvero intendono un esercito che unito al loro raddoppi le forze di ciascuno, da non impiegare se non per avviare o concludere guerre comuni, allora perché non siamo uguali in tutto? Perché uno dei due consoli non tocca ai Latini? Là dove c'è una partecipazione di forze dovrebbe esserci anche partecipazione di autorità. E questo, per altro, non sarebbe particolare motivo di vanto per noi: in fondo, abbiamo già accettato che Roma fosse capitale del Lazio! Ma prolungando all'infinito la nostra sopportazione abbiamo fatto si che questa condizione sembrasse motivo d'onore. Se però avete mai accarezzato il desiderio di dividere il comando e di godere della libertà, ecco arrivato il momento opportuno, ora che l'occasione vi viene offerta dal vostro valore e dalla benevolenza degli dei. Negando loro l'invio di truppe ne avete messo alla prova la pazienza: chi può aver dubbi che siano furenti per aver visto interrompersi una consuetudine che risaliva a più di duecento anni fa? Eppure hanno incassato il colpo. Abbiamo combattuto coi Peligni di nostra iniziativa: il popolo che in passato non ci concedeva nemmeno il diritto di difendere da soli la nostra terra non ha fatto opposizione. Hanno sentito che i Sidicini si sono messi sotto la nostra protezione, che i Campani li hanno abbandonati per schierarsi dalla nostra parte e che noi stiamo preparando un esercito per affrontare i Sanniti: eppure non si sono mossi da Roma. Da dove viene tutta questa loro moderazione, se non dalla consapevolezza della nostra e della loro forza? So da fonte sicura che ai Sanniti presentatisi a lamentarsi di noi il senato romano ha risposto in maniera da non lasciar dubbi sulla situazione: ormai nemmeno i suoi stessi membri pretendono più che il Lazio resti sotto l'autorità di Roma. Nelle vostre domande chiedete ora senza esitazioni quei diritti che essi tacitamente vi concedono. Se c'è qualcuno che non ha il coraggio di parlare, allora dichiaro che sarò io stesso a farlo di fronte non solo al popolo e al senato romano, ma anche a Giove che abita sul Campidoglio: se vogliono che osserviamo il trattato di alleanza, allora accettino che il nostro popolo fornisca uno dei consoli e parte del senato". Queste proposte e queste promesse spregiudicate vennero accolte con un urlo di approvazione generale e ad Annio fu conferito il potere di agire e parlare nella maniera che gli fosse sembrata più conveniente alla causa e all'onore del popolo latino.

Quando i due magistrati arrivarono a Roma, il senato diede loro udienza sul Campidoglio. Lì, siccome il console Tito Manlio intimò loro, su iniziativa del senato, di non portare guerra ai Sanniti che erano legati ai Romani da un trattato di alleanza, Annio parlò non come un ambasciatore protetto dal diritto delle genti, ma come un generale che avesse appena conquistato il Campidoglio con il suo esercito. "Tito Manlio", disse "e voi, senatori: sarebbe ora, una buona volta, che la smetteste di trattare con noi da padroni, rendendovi conto che il Lazio, con il favore degli dei, è più che mai ricco di uomini e di armi dopo aver vinto in guerra i Sanniti e aver ottenuto l'alleanza di Sidicini e Campani, e adesso anche dei Volsci; e rendendovi conto che addirittura le vostre colonie hanno preferito sottomettersi ai Latini piuttosto che a voi Romani. Ma poiché non vi rassegnate a porre fine al vostro dispotismo, noi - pur essendo in grado di rivendicare la libertà del Lazio con la forza delle armi - siamo disposti, in nome del rapporto di consanguineità, a offrire condizioni di pace che soddisfino entrambe le parti, in considerazione del fatto che gli dei hanno voluto un equilibrio di forze tra noi. Ecco le condizioni: i consoli devono essere eletti uno dai Romani, l'altro dai Latini; i membri del senato nominati secondo un'equa proporzione tra le due genti, in modo che ci siano un unico popolo e un unico stato. E perché la sede e il nome dell'impero siano comuni a tutti, essendo in proposito inevitabile che una delle due parti ceda nell'auspicabile interesse di entrambi i popoli, ebbene: la capitale sia la nostra città e il nome di tutti sia quello di Romani!". Il caso volle che anche i Romani avessero, nel console Tito Manlio, un uomo che poteva tener testa ad Annio quanto a bellicosità. Manlio controllò così poco il proprio risentimento da dichiarare che, se i senatori fossero stati così irragionevoli da lasciarsi dettare legge da un uomo di Sezia, si sarebbe presentato in senato con la spada al fianco e avrebbe ucciso con le sue mani qualunque latino gli si fosse parato innanzi. Voltatosi poi verso la statua di Giove, disse: "Ascolta, Giove, queste parole scellerate! Ascoltate, leggi umane e divine! Tu stesso, Giove, prigioniero e oppresso, dovrai vedere consoli e senatori stranieri nel tuo sacro santuario? Sono questi, o Latini, i patti che il re romano Tullo ha stretto con i vostri antenati albani, questi i patti che Lucio Tarquinio ha poi stipulato con voi? Non ricordate la battaglia del lago Regillo? A tal punto avete dimenticato i disastri patiti in passato e i benefici che vi abbiamo fatto?". Alle parole del console seguì l'indignazione dei senatori, ed è stato tramandato che in risposta alle numerose suppliche rivolte agli dei, ripetutamente chiamati in causa dai consoli come testimoni garanti dei trattati, si udì una frase sprezzante di Annio contro la maestà di Giove romano. Quel che è certo è che, mentre furente si precipitava fuori dal vestibolo del tempio, scivolò sui gradini e batté la testa sull'ultimo gradino con tale violenza da perdere i sensi. Poiché non tutti gli autori concordano nell'affermare che morì, posso lasciare anch'io la questione aperta, come pure il fatto che, mentre i Latini invocavano gli dei a testimoni della rottura dei trattati, scoppiò una tempesta accompagnata da un grande fragore nel cielo. Queste notizie potrebbero infatti essere vere come pure esser state inventate ad arte per rappresentare in maniera concreta l'ira degli dei. Torquato, che i senatori avevano mandato a congedare gli inviati, vedendo Annio steso a terra, esclamò (perché la sua voce arrivasse sia al popolo sia ai senatori): "Sta bene così: gli dei hanno scatenato una guerra santa. Esiste la potenza celeste! Ed esisti tu, Giove! In questa sede non ti abbiamo consacrato invano padre degli dei e degli uomini. Perché esitate, o Quiriti, e voi padri coscritti, a prendere le armi sotto la guida degli dei? Schianterà al suolo le legioni latine, così come ora vedete stramazzato a terra il loro rappresentante?. Le parole del console, accolte con approvazione da tutto il popolo, infiammarono a tal punto la massa che gli inviati latini, ormai sul piede di partenza, vennero protetti contro la rabbia e l'assalto del popolo più dall'intervento dei magistrati che li accompagnavano per disposizione del console, che dal diritto delle genti. Anche il senato si dichiarò d'accordo sulla guerra. E i consoli, arruolati due eserciti, attraversarono i territori dei Marsi e dei Peligni. Quindi, una volta unite alle loro forze quelle dei Sanniti, si accamparono nei pressi di Capua, dove cioè si erano già concentrati i Latini e i loro alleati. Là si dice che entrambi i consoli ebbero nella notte la stessa visione: un uomo di statura e imponenza superiori al normale il quale diceva che il comandante di una parte e l'esercito dell'altra avrebbero dovuto essere offerti in sacrificio agli dei Mani e alla Madre Terra. La vittoria sarebbe andata a quel popolo e a quello schieramento il cui comandante avesse offerto in sacrificio di espiazione le legioni nemiche oltre a se stesso. I consoli, confrontate queste visioni notturne, decisero di far sacrificare delle vittime per placare l'ira degli dei. Se poi il responso delle viscere fosse coinciso con il contenuto dei sogni, allora uno dei due consoli avrebbe dovuto mettere in atto la volontà del destino. Quando il verdetto degli aruspici si fu rivelato in pieno accordo con la segreta superstizione che ormai si era radicata in loro, dopo aver convocato luogotenenti e tribuni e aver reso di pubblico dominio il volere degli dei, per evitare che la morte volontaria del console spaventasse le truppe durante il combattimento, i due alti comandanti decisero di comune accordo che, dovunque l'esercito romano avesse cominciato a perdere terreno, il console che aveva il comando dei reparti in difficoltà avrebbe dovuto sacrificarsi. Nel corso dell'assemblea si decise anche che, se in passato c'erano mai state delle guerre condotte con estrema severità, ora era l'occasione buona per ricondurre la disciplina militare alle tradizioni di un tempo. La preoccupazione dei Romani era accresciuta dal fatto di dover combattere contro i Latini, un popolo che aveva la loro stessa lingua, stesse tradizioni, stesso tipo di armamenti, e soprattutto la stessa condotta ed esperienza militare. I soldati si erano mescolati con i soldati, i centurioni con i centurioni e i tribuni con i tribuni, da pari a pari e in qualità di colleghi, nelle stesse guarnigioni e spesso anche negli stessi manipoli. Per evitare che questa situazione traesse in errore i soldati, i consoli ordinarono che nessuno abbandonasse il proprio posto per andare all'assalto del nemico.

Il caso volle che tra gli altri ufficiali dei vari squadroni inviati in tutte le direzioni a perlustrare i dintorni ci fosse Tito Manlio, il figlio del console. Egli si era spinto, con i suoi cavalieri, al di sopra dell'accampamento nemico, fino a trovarsi a distanza di un lancio di giavellotto dal posto di guardia più vicino. In quel settore c'erano i cavalieri di Tuscolo agli ordini di Gemino Mecio, un uomo famoso tra i compagni sia per i nobili natali sia per il suo passato di combattente. Riconosciuti i cavalieri romani e il figlio del console, alla testa del drappello (si conoscevano tutti fra loro, specie gli uomini più in vista), disse: "Non vorrete davvero, Romani, combattere la guerra contro i Latini e i loro alleati con un solo squadrone di cavalleria? Cosa faranno nel frattempo i consoli e i due eserciti?". "E arriveranno a tempo debito", replicò Manlio, "e con loro arriverà anche Giove in persona, ben più forte e potente, testimone degli accordi che avete violato. Se al lago Regillo vi abbiamo massacrato fino alla nausea, anche qui faremo sicuramente in modo che non vi stia troppo a cuore l'affrontarci in battaglia". Udite queste parole, Gemino avanzò in sella poco oltre la linea dei compagni e domandò: "Mentre aspetti che venga quel giorno nel quale farete il grande sforzo di muovere l'esercito, non vuoi misurarti tu in persona con me, in modo che già dall'esito del nostro duello la gente veda quanto sia superiore un cavaliere latino a uno romano?". L'indole tracotante del giovane venne spinta dal risentimento o forse dalla vergogna di rifiutare la sfida, o ancora dalla forza irresistibile del destino. E così, dimentico dell'ordine del padre e del proclama del console, si gettò sconsideratamente in un duello nel quale non avrebbe fatto molta differenza se avesse vinto o perso. Dopo aver fatto allontanare gli altri cavalieri come per far spazio a uno spettacolo, i due sfidanti spronarono i cavalli l'uno contro l'altro nel tratto di pianura che si apriva tra di loro. Lanciatisi all'assalto con le aste pronte a colpire, la cuspide di Manlio sfiorò l'elmo dell'avversario, mentre l'asta di Mecio andò a finire oltre il collo del cavallo di Manlio. Poi, dopo aver girato i cavalli, Manlio, che era stato il primo a rialzarsi per il secondo assalto, riuscì a piantare la punta del giavellotto tra le orecchie del cavallo. Per il dolore della ferita, l'animale si alzò sulle zampe anteriori e scosse la testa con violenza, sbalzando di sella il cavaliere. Questi, appoggiandosi all'asta e allo scudo, cercava di rimettersi in piedi dopo la pesante caduta, quando Manlio lo trapassò col giavellotto che, uscito dal fianco dopo essere entrato dalla gola, inchiodò a terra l'avversario. Quindi, raccolte le spoglie, ritornò dai compagni di squadra che lo accolsero con un urlo di gioia e lo accompagnarono all'accampamento, dove il giovane cercò immediatamente la tenda del padre, senza sapere cosa il destino avesse in serbo per lui, se cioè la lode oppure la punizione. "Padre", disse "perché tutti mi ritengano veramente figlio tuo, io ti porto queste spoglie equestri, strappate al corpo di un nemico che mi aveva sfidato a duello". Non appena il console sentì queste parole, distolse immediatamente lo sguardo dal figlio e ordinò al trombettiere di suonare l'adunata. Raccoltisi gli uomini, disse: "Poiché tu, Tito Manlio, senza portare rispetto né all'autorità consolare né alla patria potestà, hai abbandonato il tuo posto, contro i nostri ordini, per affrontare il nemico, e con la tua personale iniziativa hai violato quella disciplina militare grazie alla quale la potenza romana è rimasta tale fino al giorno d'oggi, mi hai costretto a scegliere se dimenticare lo Stato o me stesso, se dobbiamo noi essere puniti per la nostra colpa o piuttosto è il paese a dover pagare per le nostre colpe un prezzo tanto alto. Stabiliremo un precedente penoso, che però sarà d'aiuto per i giovani di domani. Quanto a me, sono toccato non solo dall'affetto naturale che un padre ha verso i figli, ma anche dalla dimostrazione di valore che ti ha fuorviato con una falsa parvenza di gloria. Ma visto che l'autorità consolare dev'essere o consolidata dalla tua morte oppure del tutto abrogata dalla tua impunità, e siccome penso che nemmeno tu, se in te c'è una goccia del mio sangue, rifiuteresti di ristabilire la disciplina militare messa in crisi dalla tua colpa, va, o littore, e legalo al palo". Di fronte a un ordine tanto crudele rimasero tutti senza fiato: ciascuno, frenato più dalla paura che dalla disciplina, guardava alla scure come fosse rivolta contro se stesso. Ma quando si riebbero dallo stupore che li aveva tenuti immobili in silenzio, all'improvviso, mentre il sangue sgorgava dal collo reciso, le loro voci esplosero in un lamento così incontrollabile da non risparmiare né gemiti né maledizioni; e dopo aver coperto con le spoglie il corpo del giovane, costruirono una pira al di là della trincea e lo cremarono con tutti gli onori funebri che la cura dei soldati gli potesse offrire. E gli 'ordini di Manlio' non solo suscitarono orrore in quella precisa circostanza, ma costituirono anche per i giorni a venire un esempio di crudele severità.Tuttavia la brutalità di quella punizione rese più obbedienti i soldati, e non solo i servizi di guardia, i turni di sentinella e di picchetto vennero dovunque effettuati con maggiore attenzione, ma quell'eccesso di severità fu d'aiuto anche nella parte finale della lotta, quando si arrivò allo scontro in campo aperto.

L'organizzazione manipolare secondo Tito Livio

Quella battaglia, però, ricordò molto da vicino una guerra civile: a tal punto i Latini non differivano in nulla dai Romani se non per il valore. In passato i Romani avevano utilizzato piccoli scudi rotondi. Ma in seguito, quando l'esercito venne pagato, li rimpiazzarono con grandi scudi rettangolari. E ciò che prima era stata una falange simile a quella dei Macedoni, con gli anni iniziò a essere una linea di battaglia formata da gruppi di manipoli, con le retroguardie inquadrate in più compagnie, ciascuna delle quali aveva sessanta soldati, due centurioni e un alfiere. In prima linea c'erano gli hastati, organizzati in quindici manipoli l'uno a ridosso dell'altro. Ogni manipolo constava di venti soldati armati alla leggera, mentre il resto portava lo scudo pesante. Inoltre erano definiti leves gli uomini che portavano soltanto l'asta e i giavellotti pesanti. Questa prima linea dello schieramento era formata dal fiore della gioventù in età militare. Alle loro spalle c'era una linea costituita dallo stesso numero di manipoli, a loro volta formati da uomini più maturi e chiamati principes. Provvisti tutti di grandi scudi rettangolari, essi erano dotati delle armi migliori. A questa formazione di trenta manipoli veniva dato il nome di antepilani, perché dietro alle insegne erano schierate altre quindici compagnie, ciascuna delle quali risultava formata da tre plotoni, che a loro volta prendevano il nome di pili. Ogni manipolo, costituito da centottantasei effettivi, aveva tre insegne. Dalla prima insegna dipendevano i triarii, soldati di provato valore; dalla seconda i rorarii, meno validi per età e precedenti sul campo, mentre dalla terza gli accensi, cioè dei soldati su cui si poteva fare scarso affidamento e che proprio per questo motivo venivano relegati nelle estreme retrovie. Quando l'esercito veniva inquadrato in questa formazione, i primi a entrare nel vivo dello scontro erano gli hastati. Se questi ultimi non riuscivano a piegare la resistenza del nemico, si ritiravano a passo lento e andavano a occupare gli spazi vuoti tra i manipoli dei principes, cui toccava allora il compito di sfondare, avendo alle spalle gli hastati. I triarii stavano fermi presso le loro insegne con la gamba sinistra in avanti, gli scudi appoggiati alle spalle, le aste piantate in terra con la punta rivolta in alto, dando così l'impressione che la loro linea fosse protetta dalle punte di una palizzata. Se poi anche i principes non combattevano in maniera sufficientemente efficace, dalla prima linea retrocedevano a poco a poco fino all'altezza dei triarii (di qui il proverbio 'arrivare ai triarii', in uso per indicare che le cose inclinano al peggio). I triarii, alzandosi a combattere dopo aver raccolto negli spazi vuoti tra le loro unità i principes e gli hastati, serravano subito le fila chiudendo ogni passaggio; poi, senza più alcuna protezione alle spalle, caricavano il nemico a ranghi compatti. Questa manovra incuteva enorme terrore negli avversari che, gettandosi all'inseguimento di chi credevano ormai sconfitto, all'improvviso si trovavano davanti agli occhi una nuova schiera più numerosa della precedente. Di solito venivano arruolate anche quattro legioni costituite da cinquemila fanti ciascuna, più trecento cavalieri per ogni legione. Un contingente di analoghe proporzioni veniva poi aggiunto con la leva effettuata tra i Latini, che in quella circostanza erano però nemici dei Romani e avevano schierato la loro linea di battaglia seguendo lo stesso schema di formazione. Ed i Latini sapevano che in battaglia si sarebbero scontrati non solo i manipoli con i manipoli, gli hastati con gli hastati, i principes con i principes, ma - ammesso che gli schieramenti in campo non subissero modifiche - anche i centurioni con i centurioni. In entrambi gli eserciti il primipilo si trovava tra i triarii. E se il Romano non era eccessivamente forte dal punto di vista fisico, ma dotato di coraggio e di grande esperienza in campo militare, il Latino era un combattente di prima qualità, aiutato da un fisico possente. I due si conoscevano benissimo perché avevano sempre comandato compagnie dello stesso rango. Il centurione romano, non avendo abbastanza fiducia nella propria forza fisica, prima di lasciare Roma aveva ottenuto dai consoli il permesso di scegliersi un centurione a lui subordinato, che lo proteggesse dall'avversario che gli era destinato. E il giovane prescelto, scontratosi in battaglia con il centurione latino, ebbe la meglio su di lui.

La battaglia

La battaglia venne combattuta non lontano dalle pendici del Vesuvio, nel punto in cui la strada portava al Veseri. I consoli romani offrirono sacrifici prima di guidare le loro truppe all'assalto. A quanto si racconta, l'aruspice avrebbe fatto notare a Decio che il fegato era inciso nella parte famigliare, ma che la vittima era ugualmente gradita agli dei e che Manlio aveva ottenuto auspici quanto mai favorevoli. "Allora sta bene", disse Decio "il collega ha ricevuto dei segni favorevoli". Nella formazione già descritta, i Romani avanzarono sul campo di battaglia. Manlio guidava l'ala destra, Decio la sinistra. All'inizio le forze e l'ardore dei combattenti erano uguali da entrambe le parti. Ma dopo qualche tempo gli hastati romani, non riuscendo a reggere la pressione dei Latini, dovettero riparare tra i principes. In questo momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: "Abbiamo bisogno dell'aiuto degli dei, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni". Il pontefice gli ordinò di indossare la toga pretesta, di coprirsi il capo e, toccandosi il mento con una mano fatta uscire da sotto la toga, di pronunciare le seguenti parole, ritto, con i piedi su un giavellotto: "Giano, Giove, padre Marte, Quirino, Bellona, Lari, dei Novensili, dei Indigeti, dei nelle cui mani ci troviamo noi e i nostri nemici, dei Mani, io vi invoco, vi imploro e vi chiedo umilmente la grazia: concedete benigni ai Romani la vittoria e la forza necessaria e gettate paura, terrore e morte tra i nemici del popolo romano e dei Quiriti. Come ho dichiarato con le mie parole, così io agli dei Mani e alla Terra, per la repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito, per le legioni e per le truppe ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, offro in voto le legioni e le truppe ausiliarie del nemico insieme con me stesso". Rivolta questa invocazione, ordinò ai littori di recarsi da Tito Manlio e di annunciare quanto prima al suo collega che egli si era offerto in sacrificio per il bene dell'esercito. Cintasi poi la toga con il cinto gabino, saltò a cavallo con le armi in pugno e si gettò in mezzo ai nemici, apparendo a entrambi gli eserciti con un aspetto ben più maestoso di quello umano, come fosse stato inviato dal cielo per placare ogni ira degli dei e allontanare dai compagni la disfatta rovinosa, respingendola sui nemici. Fu per questo che il suo assalto seminò panico e terrore nelle prime file dei Latini, arrivando poi a contagiare l'intero esercito. Era evidentissimo che, dovunque si dirigesse in sella al suo cavallo, là i nemici si ritraevano spaventati come fossero stati colpiti da una meteora letale. Ma quando poi cadde sommerso da una pioggia di frecce, da quel momento non ci furono più dubbi sullo sbandamento delle coorti latine che si diedero ovunque alla fuga, lasciando dietro di sé il deserto. Nello stesso istante i Romani - liberati dal peso della superstizione -, come se solo allora fosse stato dato il segnale, si lanciarono all'assalto, riaccendendo la mischia. Infatti anche i rorarii si fecero sotto, tra gli antepilani, aggiungendo le loro forze a quelle di hastati e principes, mentre i triarii, ancora inginocchiati sulla gamba destra, aspettavano che il console desse loro il segnale di alzarsi.

Mentre la battaglia continuava e in alcuni punti i Latini stavano avendo la meglio grazie alla superiorità numerica, il console Manlio venne a conoscenza della fine del collega e, dopo aver onorato con il pianto e le giuste lodi - come richiedevano il senso del dovere e la pietà - una morte così gloriosa, rimase per un attimo nel dubbio se fosse già giunto il tempo di una sortita dei triarii. Ma poi, pensando fosse preferibile tenerli in serbo per l'attacco finale, ordinò agli accensi di portarsi dalle retrovie al di là delle insegne. Non appena essi presero posizione, ecco che i Latini, convinti che gli avversari avessero fatto la stessa mossa, mandarono avanti i loro triarii, i quali, pur sfiniti, con le lance rotte o spuntate, dopo aver combattuto con grande accanimento per qualche tempo, riuscirono a respingere il nemico; e credevano di aver già avuto la meglio e di aver raggiunto l'ultima linea avversaria, quando il console disse ai triarii: "Ora alzatevi e affrontate freschi come siete il nemico sfinito, ricordandovi della patria, dei genitori, di mogli e figli, e del console caduto per la vostra vittoria". Quando i triarii si alzarono, pieni di energie, con le loro armi luccicanti, nuova schiera spuntata all'improvviso, accolsero gli antepilani negli spazi vuoti tra le loro schiere e levando il grido di guerra seminarono lo scompiglio tra le prime file dei Latini. Colpendoli in faccia con le aste e massacrandone il fiore della gioventù, penetrarono attraverso gli altri manipoli come se questi non fossero armati, frantumando i loro cunei con un massacro di tali proporzioni che a stento un quarto dei nemici sopravvisse. Anche i Sanniti, schierati a distanza ai piedi delle montagne, terrorizzarono i Latini. Tra tutti i cittadini e gli alleati, la gloria principale di quella vittoria fu dei consoli: uno dei quali aveva attirato unicamente verso la propria persona tutte le minacce e le maledizioni degli dei celesti e infernali, mentre l'altro aveva dimostrato in battaglia un coraggio e un'accortezza tali che, quanti tra Romani e Latini lasciarono un resoconto della battaglia concordarono agevolmente sul fatto che qualunque fosse stata la parte guidata da Tito Manlio, a quella sarebbe sicuramente andata la vittoria. I Latini in fuga ripararono a Minturno. Il loro accampamento venne preso dopo la battaglia e là molti uomini - in buona parte Campani - furono catturati e passati per le armi. Il corpo di Decio non venne recuperato quel giorno, perché la notte interruppe le ricerche. Fu rinvenuto il giorno dopo sotto un mucchio di frecce in mezzo all'enorme massa di nemici caduti. Il collega gli tributò onoranze funebri adeguate alla morte toccatagli. Mi sembra opportuno aggiungere che il console, il dittatore o il pretore che offra in sacrificio le legioni nemiche non deve necessariamente immolare se stesso, ma può scegliere di offrire un cittadino incluso in una legione romana regolarmente arruolata e scelto a suo piacimento. Se l'uomo che viene offerto muore, è segno che le cose riusciranno per il meglio. Se invece non muore, allora una sua immagine viene sotterrata a sette o più piedi di profondità nella terra, e viene offerta in sacrificio una vittima espiatoria. E al magistrato romano non sarà consentito di salire sopra il punto in cui l'immagine è stata sotterrata. Se poi vuole offrire se stesso in voto, come fece Decio, e non muore, non può offrire sacrifici di natura né pubblica né privata senza macchiarsi di una colpa, sia che ricorra a una vittima, sia che si serva di un'altra offerta di suo piacimento. Colui che si offre in voto ha il diritto di dedicare le proprie armi a Vulcano o a qualunque altra divinità desideri. È considerata una violazione sacrilega che il nemico si impossessi del giavellotto sul quale è stato in piedi il console nell'atto di pronunciare la sua invocazione. Nel caso in cui la cosa si verifichi, bisogna placare l'ira di Marte offrendo in sacrificio una pecora, un maiale e un toro.

Anche se la memoria di ogni usanza sacra e profana è stata cancellata dal favore che gli uomini tributano alle cose nuove e straniere, preferendole a quelle antiche e trasmesse dagli antenati, ho ritenuto che non fosse fuori luogo riferire queste procedure con le parole con le quali sono state formulate e tramandate. Presso alcuni autori ho trovato che fu soltanto a battaglia conclusa che i Sanniti intervennero in aiuto dei Romani, dopo aver atteso l'esito dello scontro. E anche che i Latini erano già stati messi in fuga quando gli abitanti di Lavinio, che continuavano a perdere tempo in discussioni sul da farsi, portarono finalmente il loro aiuto. E ricevuta la notizia della disfatta patita dai Latini quando ormai la loro avanguardia e parte dell'esercito erano usciti dalle porte, con una rapida inversione di marcia sarebbero rientrati in città, poiché il loro pretore di nome Milonio - a quanto si racconta - avrebbe ricordato ai suoi che quella breve sortita sarebbe costata cara ai Romani.

Le conseguenze

I Latini sopravvissuti alla battaglia, dispersi in varie direzioni, si riunirono in un unico nucleo e si rifugiarono nella città di Vescia. Là, nelle assemblee che essi tenevano, il loro comandante in capo Numisio affermava che in realtà l'esito della guerra era stato incerto, che entrambe le parti avevano subito un ugual numero di perdite e che i Romani avevano vinto soltanto nominalmente, trovandosi invece, di fatto, nella condizione di sconfitti. Le tende di entrambi i consoli erano in lutto: una per l'uccisione del figlio, l'altra per la morte del console che si era offerto in voto. Il loro intero esercito era stato fatto a pezzi, hastati e principes massacrati, la carneficina aveva coinvolto dall'avanguardia alla retroguardia, e soltanto alla fine i triarii erano riusciti a ristabilire le sorti della battaglia. Anche se le forze latine erano state ugualmente decimate, tuttavia, per fornire nuovi rinforzi, tanto il Lazio quanto la terra dei Volsci erano più vicini di Roma. Perciò, se sembrava loro opportuno, egli avrebbe rapidamente messo insieme dei giovani in età militare reclutandoli dalle genti del Lazio e da quelle dei Volsci, sarebbe ritornato a Capua con un esercito pronto a combattere: il suo arrivo inatteso avrebbe gettato nello scompiglio i Romani, i quali in quel momento tutto si aspettavano fuorché una battaglia. Vennero così inviate delle lettere piene di menzogne in tutto il Lazio e nella terra dei Volsci: poiché quanti non avevano preso parte alla battaglia erano pronti a credere ciecamente al messaggio in esse contenuto, venne rapidamente messo insieme, da tutte le parti, un esercito raccogliticcio. A questo contingente and? incontro presso Trifano - tra Sinuessa e Minturno - il console Torquato. Entrambi gli eserciti, senza neppure aver scelto un punto per porre l'accampamento, ammassate le salmerie, vennero a battaglia e posero fine alla guerra. Le truppe nemiche subirono infatti una tale decimazione che, quando il console guidò il suo esercito vincitore a devastare il territorio dei Latini, questi ultimi si consegnarono dal primo all'ultimo, e i Campani seguirono il loro esempio. Il Lazio e Capua vennero privati del territorio. Il territorio dei Latini, invece, in aggiunta a quello dei Privernati e a quello di Falerno (appartenuto al popolo campano) fino al fiume Volturno, venne diviso tra la plebe romana. A ciascun cittadino furono assegnati due iugeri nel Lazio, in modo da aggiungere un terzo di iugero nel territorio di Priverno, mentre in quello di Falerno vennero assegnati tre iugeri di terra a testa con in più un quarto di iugero dato come compenso per la lontananza. Tra i Latini non incorsero in punizioni i Laurenti, tra i Campani i cavalieri, in quanto non avevano preso parte all'ammutinamento. Fu data disposizione di rinnovare il trattato coi Laurenti, e da quel giorno è stato rinnovato ogni anno dieci giorni dopo le ferie latine. Ai cavalieri campani venne concessa la cittadinanza romana e per commemorare la cosa venne affissa una tavoletta di bronzo nel tempio di Castore a Roma. Inoltre venne ordinato al popolo campano di pagare a ciascuno di essi (si trattava di mille e seicento uomini) un tributo annuo di quattrocentocinquanta denari.



Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro VII